Il rischio "Green Wash". Seminario alla Cattolica sulle finte virtù ambientaliste di certi prodotti

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PIACENZA - La sostenibilità del pianeta e dei prodotti che utilizziamo ogni giorno sta diventando sempre più rilevante. Garantire il cibo sufficiente per tutti senza devastare l’unica terra che possediamo è una sfida globale. Ma per dichiarare che un alimento è stato realizzato in modo sostenibile - cioè rispettando l'ambiente e le persone con misure economicamente efficienti - non basta un’etichetta, anche se è il primo punto da cui il consumatore di informa. Le aziende stanno indirizzandosi sempre di più verso il modello di sostenibilità anche se nel mercato restano ampi spazi di zone grigie, di fenomeni “green wash”, dipinti di verde, come dicono gli esperti (ossia l’'ingiustificata appropriazione di virtù ambientaliste da parte di aziende finalizzata alla creazione di un'immagine positiva o comunque mistificatoria delle proprie attività o prodotti) dove non sempre quello che è scritto sulla etichetta corrisponde al vero. Di certo, a corrispondere al vero sono alcuni vigneti certificati come sostenibili dopo una sperimentazione dell’Università Cattolica piacentina in collaborazione con il ministero dell'Ambiente.

Di etichettatura e di sostenibilità si è parlato a Piacenza, all’interno del seminario della serie “La Cattolica al servizio della città”, dove hano parlato la ricercatrice Lucrezia Lamastra e Marco Trevisan, direttore dell’istituto di Chimica agraria e ambientale e del centro di ricerca Biomass (entrambi i relatori sono della prestigiosa facoltà di Scienze agrarie, alimentari e ambientali).
Oggi non esiste una certificazione unica, molte anzi sono autodichiarazioni e l’agroalimentare spesso è escluso. «Servirebbe – ha affermato Trevisan rispondendo alla platea – un ente certificatore riconosciuto, che operasse sulla base di una legge fatta di pochi articoli e che garantisse la certezza della sanzione in caso di illecito». Insomma, un programma antiburocratico di prim’ordine che cozza con il caos normativo e la miriade di enti “controllori” che spesso mettono in ginocchio le aziende. Il consumatore deve leggere bene le etichette, non farsi trarre in inganno e magari andare a verificare se ciò che è scritto è vero o non contraddittorio.

IL CIBO Lamastra ha iniziato parlando del deficit ecologico nazionale: basandosi infatti sulla destinazione d’uso della nostra nazione ognuno di noi avrebbe a disposizione per produrre tutto quello che impiega e per assorbire tutti i rifiuti che produce di terreno (biocapacità); basandosi invece sull’analisi di quelli che sono i nostri consumi risulta che mediamente ognuno di noi necessiterebbe di 5 ettari di terreno (per la produzione dei beni consumati e lo smaltimento dei rifiuti prodotti). Non è solo dall’estero, però, che prendiamo il terreno (attraverso le merci che importiamo) di cui effettivamente non disponiamo, in parte stiamo “sovra-sfruttando” il sistema, intaccando il capitale naturale che dovremmo invece lasciare inalterato per i nostri figli. Noi, cittadini, possiamo fare qualcosa. «Dei tre fattori che influenzano la nostra “impronta”- energia-trasporti-cibo - il fattore cibo – ha spiegato Lamastra – è il più potente. Ognuno di noi, infatti, può decidere abbastanza liberamente cosa e quanto mangiare senza particolari investimenti “strutturali” semplicemente informandosi».

L’ETICHETTA E L’AZIENDA Il regolamento UE 1169 del 2011 stabilisce un principio fondamentale: l’etichetta non deve trarre in inganno il consumatore. Ed entrerà in vigore dal dicembre di quest’anno. Le aziende, soprattutto quelle italiane, incorporano sempre più politiche ecosostenibili(«attenzione non solo al profitto, ma anche all'ambiente e alle persone»). Una volta, la performance aziendale era data dal risultato del bilancio, oggi si usano tre importanti indicatori: economici, ambientali e sociali. E vale per tutti, banche comprese. Se il bilancio deve essere positivo è anche vero che l’impresa deve mostrare che utilizza meno energia, spreca meno risorse, usa materiali ecologici, ha a cuore il benessere dei dipendenti ai quali fa adottare pratiche sostenibili.

IL CONSUMATORE Se negli Anni 50 il consumatore chiedeva una distribuzione rapida dei prodotti, il decennio dopo si orientava verso la qualità, per passare negli Anni 70-80 al “bello”, approdando infine al cibo sicuro e, oggi, a quello etico. E le aziende si sono adeguate. Oggi il modello sostenibile è scelto dall’impresa soprattutto in funzione del risparmio energetico, anche se a questo seguono motivazioni come la riduzione dell’inquinamento, il risparmio di acqua, il trattamento dei rifiuti o l’aumento della qualità della vita dei lavoratori.

IL BOOM VERDE Dal 2009 al 2010 la produzione di “verde” è balzata in avanti del 73%. Di 438 schemi di etichettatura in 246 Paesi (129 nella sola UE), ben 147 riguardavano cibo e bevande. A campeggiare un po’ dappertutto sono i prodotti biologici e quelli del mercato equo e solidale.

IL RISCHIO GREEN WASH «Il rischio – secondo Lamastra – c’è perché tanti prodotti non sono davvero verdi come vorrebbero farci credere le indicazioni in etichetta, ma sono solo verniciati di verde». Chi si fregia di avere il prodotto sostenibile, magari produce solo la confezione, oppure parla genericamente che non ci sono stati test su animali; dà indicazioni vaghe come “naturale” o “non tossico”; irrilevanti, come non contiene Cfc, peraltro banditi dal 1992; evidenzia il minore dei mali, come la sigarette bio; oppure scrive falsità come lo shampoo biologico o il bio oil perché semplicemente non regolamentati dal disciplinare biologico. Lamastra ha citato la devastazione ambientale – altro che sostenibilità - per produrre presunti prodotti “verdi”: la foresta tropicale viene tagliata per poi ripiantumare le palme da cui ricavare olio di palma, usato soprattutto come carburante, come base per tensioattivi di origine vegetale, e nell’industria alimentare. Altro fattore è il possibile sfruttamento del lavoro che sta dietro a un prodotto. In conclusione, il concetto di sostenibilità è ampio e comprende aspetti economici e sociali.

L’ETICHETTA Tre i tipi di label esistenti, anche se solo due di questi danno garanzie (il label di tipiìo I e III). La “eco label” certifica l'impatto misurato lungo il ciclo di vita, quasi nessuno è rivolto al settore agro-alimentare. La label tipo II è basata su autodichiarazioni e certifica un solo aspetto (il riciclo o il riuso, ad esempio).
Il tipo III è attendibile e riguarda la dichiarazione ambientale. Capofila, ha ricordato Lamastra, sono Barilla e Granarolo, le quali dichiarano tutti gli impatti ambientali potenziali e «le informazioni sono credibili, oggettive e verificabili». Queste informazioni, però, sono più rivolte ai buyers esteri che ai consumatori.

IL CASO DEI VIGNETI L’Università Cattolica, con il centro di ricerca Opera (il progetto VIVA sustainable wine), ha preso in considerazione – per stabilire la sostenibilità in viticoltura – non solo l’impronta carbonica, cioè la misurazione degli effetti prodotti sul clima derivanti dall’emissione in atmosfera di un gas serra. Sono state studiate l'impronta idrica (consumo di acqua), quella del territorio (il beneficio che l’azienda porta a un territorio, con ricadute positive sul turismo, sulle relazioni con i consumatori e sul benessere dei lavoratoti) e quella del vigneto. Lo studio ha analizzato a tappeto ogni momento della produzione: dal campo, dai mezzi usati, dal tipo di raccolta, dall’acqua utilizzata fino ad arrivare alla cantina con l’energia necessaria, l’impatto ambientale del vetro delle bottiglie e del loro confezionamento.
Parafrasando il vecchio adagio pubblicitario di Renzo Arbore “meditate gente, meditate” si potrebbe, adattandolo all’etichetta, ripeterlo così: “leggete gente, leggete”.
Gianfranco Salvatori

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